Nel contesto economico-sociale attuale, la donna spesso fa fatica a conciliare il lavoro e la cura dei figli. (Foto da internet)
di Gioia Palmieri
Conciliare lavoro e famiglia. Una sfida che non interpella solo la donna (o almeno non dovrebbe) ma tutti coloro che operano nel mercato del lavoro, la società civile e la politica. Nel corso degli anni sono stati compiuti passi importanti ma resta ancora molto da fare. Nel contesto economico-sociale attuale, la donna spesso fa fatica a realizzare due esigenze fondamentali: da una parte c’è il bisogno di impegnarsi in una professione e di contribuire all’economia domestica con un salario; dall’altra il desiderio e la necessità di prendersi cura dei propri figli.
È dalla constatazione attiva di questa situazione che l’Organizzazione Cristiano-Sociale Ticinese (OCST) ha fatto circolare in questi giorni un documento tra il personale sanitario del Cantone. Si tratta di una serie di proposte concrete finalizzate ad aiutare le donne che lavorano e al tempo stesso tirano su famiglia.
Secondo datore di lavoro in Ticino, il settore sanitario è il primo “terreno di battaglia” per intavolare con i partner interessati una discussione sulle condizioni di lavoro delle madri e per estendere eventualmente le proposte ad altri settori. Circa l’80 per cento dei dipendenti in questo settore è infatti rappresentato dalle donne.
«Battaglia è un termine forte - precisa Benedetta Rigotti, del gruppo Donna-lavoro dell’OCST e tra le autrici del documento -. Abbiamo voluto avanzare delle proposte concrete per aprire un dialogo volto al raggiungimento di un bene comune sia per i dipendenti che per i datori di lavoro. Non vogliamo alzare barricate, intendiamo invece intraprendere un cammino che rechi vantaggio a tutte le parti sociali coinvolte”.
Una serie di proposte, dunque, nell’interesse di tutti. Già, perché favorendo la conciliazione lavoro-famiglia e creando migliori condizioni per il rientro dopo la maternità si riuscirebbe a garantire maggiormente la presenza di personale qualificato, non solo nel settore socio-sanitario. Come ricorda il documento dell’OCST, la Svizzera soffre di mancanza di personale qualificato. Vi è un forte bisogno di manodopera formata, specialmente dopo l’approvazione dell’iniziativa popolare sull’immigrazione di massa e delle prevedibili restrizioni alle nuove entrate di lavoratori frontalieri.
«Queste misure non andrebbero solo ad incidere positivamente sulla qualità di vita delle donne e delle loro famiglie, ma anche sulle strutture sanitarie e nel mercato del lavoro, permettendo all’azienda di conservare il suo patrimonio di conoscenze», spiega Renato Ricciardi, responsabile per l’OCST del settore sociosanitario.
Il sindacato riconosce gli sforzi intrapresi dalla politica, che si sta occupando intervenendo su vari fronti, uno dei quali è proprio la conciliazione famiglia-lavoro su cui si vorrebbero ora dei passi ancora più concreti. A partire dal settore sociosanitario. «Si tratta di uno dei settori più colpiti dalla carenza di personale qualificato tanto che si stima che ogni anno, tra i nuovi infermieri assunti, il 40% arrivi da oltre confine», ci spiega ancora Benedetta Rigotti.
Il fabbisogno di personale infermieristico in Ticino è stimato a circa 220 nuovi infermieri ogni anno. Di questi 130 sono residenti e 90 corrispondono agli infermieri entrati dall’estero. Il Consiglio di Stato stima una domanda in crescita di 80 infermieri all’anno (vedi box ). «Senza calcolare il progressivo invecchiamento della popolazione che in futuro porterà a un ulteriore aumento della richiesta di personale sanitario nelle case per anziani – continua Rigotti –. Entro il 2030, l’Osservatorio svizzero della salute prevede a livello nazionale un aumento della necessità di operatori nelle case per anziani con il bisogno di un 60% in più degli effettivi attuali nell’assistenza e cura».
Questo comporta prima di tutto uno sforzo maggiore nella formazione degli allievi delle scuole sociosanitarie e secondariamente un impegno nel rendere la professione più attrattiva tra i giovani e gli adulti.
Tuttavia, secondo l’OCST, nel settore sociosanitario il problema non è solo la carenza di studenti. «In Ticino, oltre al problema del difficile reclutamento delle giovani leve nelle scuole, si è confrontati anche con una breve durata della vita lavorativa in campo sanitario. Le professioni di cura sono molto usuranti dal punto di vista fisico e psicologico» spiega Ricciardi. Nel documento, viene riportata una statistica del 2012 dell’Ente Ospedaliero Cantonale, che mette bene in luce il problema: la durata media della vita lavorativa degli infermieri è di circa 13 anni e più della metà degli infermieri ha un’anzianità di servizio inferiore ai 10 anni.
Per il sindacato, tra le cause dell’abbandono della professione si possono sicuramente indicare il grande impegno richiesto dalle professioni legate alla cura delle persone e le difficoltà legate alle condizioni e all’organizzazione del lavoro, in particolare per le dipendenti che si occupano della famiglia e della cura dei figli (si pensi ai turni, alle notti, al carico fisico e psicologico dei pazienti). Non a caso, l’abbandono della professione coincide spesso con il momento in cui una donna inizia ad avere figli.
Per sostenere la famiglia e armonizzare le sue esigenze con quelle del lavoro, l’OCST chiede innanzitutto di «promuovere d’intesa con i partner interessati un’analisi conoscitiva per approfondire i motivi di abbandono della professione e verificare quali condizioni potrebbero favorire una ripresa dell’attività dopo la nascita di un figlio». Quindi, il sindacato propone una serie di interventi a cominciare da alcune misure organizzative che permettano una pianificazione del lavoro più flessibile. Come spiega Rigotti: «Per aiutare le donne a conciliare il lavoro e la famiglia, in alcuni casi è sufficiente l’introduzione di una maggiore flessibilità nell’azienda. Ciò richiede un impegno organizzativo supplementare, ma non aggiunge particolari oneri finanziari».
Tra le proposte: favorire dove possibile l’impiego a tempo parziale (anche con un grado di occupazione inferiore al 50%), introdurre o aumentare il periodo di congedo non retribuito per maternità, adozione e affido fino a 18 mesi (per la madre e per il padre); agevolare il rientro professionale dopo il congedo.
Possibilità di ripresa del lavoro a tempo parziale e con modelli flessibili; favorire la creazione di servizi di accoglienza per i bambini (asili-nido, mamme diurne eccetera).
Accanto a queste misure organizzative, il sindacato avanza delle proposte innovative. «Proporremo di includere nei contratti collettivi di lavoro il diritto a 20 settimane di congedo per maternità (con salario intero) e 4 settimane di congedo per il padre» afferma Ricciardi.
Per l’OCST, è fondamentale riflettere anche sullo studio di nuovi modelli, quali l’introduzione di un congedo per maternità supplementare a un salario inferiore dopo il periodo con diritto al salario intero; rilanciare i corsi professionali di aggiornamento delle proprie competenze; conteggiare e premiare gli anni di servizio prestati prima dell’interruzione di lavoro; aumentare il tempo per stare con i figli facilitando la coincidenza delle vacanze lavorative con quelle scolastiche; migliorare la mobilità professionale all’interno dell’azienda.
Migliorando le condizioni di lavoro per le madri lavoratrici si renderebbero quindi ancora più attrattive le professioni di cura, favorendo così il reclutamento di giovani leve nelle scuole sociosanitarie e il rientro al lavoro di chi precedentemente aveva sospeso la professione. Una tendenza che potrebbe fare scuola non solo nel settore sanitario, ma in molti altri campi professionali dove anche la presenza femminile può segnare una svolta decisiva alla qualità dei servizi offerti e all’andamento economico interno all’azienda.
«Queste proposte verranno messe a tema nelle prossime trattative sui contratti collettivi di lavoro e ci auguriamo che il dialogo possa estendersi dal settore sanitario ad altri settori», conclude Renato Ricciardi.